Riccardo è stato uno dei primi in Italia a scoprire il Powerchair Hockey grazie a Luigi Maccione che organizzò una dimostrazione durante le Manifestazioni Nazionali UILDM. Riccardo si innamorò subito di questa disciplina nella quale aveva fin da subito riconosciuto una opportunità di interazione sociale oltre che sportiva per tanti giovani. Da lì inizio un percorso che vide Riccardo diventare fautore della nascita del movimento italiano del Wheelchair Hockey, poi rinominato Powerchair Hockey.
Intervista a cura di Marttia Abbate
Riccardo tu sei stato uno dei principali promotori del powerchair hockey in Italia. Inizialmente non c'era una federazione dedicata… che cosa vi ha fatto decidere di crearne una ad hoc?
L’idea di dare dignità a uno sport che, arrivato in Italia solo 3 o 4 anni prima, aveva già saputo regalare entusiasmo a tanti ragazzi con patologie neuromuscolari. E poi perché, per rispondere alla voglia di (sano) agonismo e di (leale) competizione crescente, era necessario creare una adeguata cornice organizzativa.
Questa scelta si è rivelata vincente ma quali sono state le maggiori difficoltà che avete incontrato inizialmente?
Beh, se le esigenze che ho esposto sopra erano ben chiare a tutti i praticanti, lo era meno come soddisfarle… le competenze e le persone disposte a impegnarsi non erano molte. Alla fine si creò un organismo, la WHL, del quale facevano parte tutte le squadre esistenti, che di fatto si autogestivano, dandosi regole, sanzioni, criteri di partecipazione e di svolgimento delle gare. Si può immaginare con quali difficoltà…. Io diedi la disponibilità a presiedere la WHL. Ma fondamentale, occorre dirlo, fu l’apporto dato dalla UILDM, che supportava direttamente molte delle squadre praticanti e il cui contributo fu determinante, a Milano, per organizzare le finali del primo Campionato Italiano.
La tua prima partita ufficiale quale è stata? Cosa ti ricordi di quella giornata?
Accadde a Reggio Emilia, in un torneo organizzato dalla squadra locale, che era stata una delle primissime realtà di questa disciplina a costituirsi in Italia. Giocammo nel locale palazzetto dello sport, un grande impianto dove si esibivano squadre di serie A di hockey su pista. Un’emozione indescrivibile. Anzi, io che amo la narrativa, ho provato a descriverla quell’emozione, in un mio racconto… Ma questa è un’altra storia…
Hai ricoperto vari ruoli nel powerchair hockey tra cui: giocatore, allenatore, dirigente…C’è un ruolo in particolare che preferisci?
Il ruolo di giocatore è l’essenza di tutti gli altri… Nessuno dovrebbe impegnarsi poi in altri ruoli, senza aver provato prima l’esperienza del campo: è fondamentale. Anche se comunque poi ci sono sempre le eccezioni che confermano la regola.
In questi anni le squadre milanesi hanno ottenuto risultati importanti, e si sono alternati tanti giocatori. Quali sono le persone che hai conosciuto meglio?
Mi verrebbe da rispondere tutti… perché davvero li ho conosciuti tutti, dai primi 5 riuniti per formare la prima formazione del Dream Team nel 1993, fino a quelli delle Turtles e del Dream Team che ho allenato nelle ultime 2 stagioni, l’ultima interrotta nel 2020 a causa della pandemia. Dovendo fare dei nomi però ne faccio tre: Alberto Fontana, Alessandro Bruno e Marco Brusati.
Ci sono dei momenti che avete vissuto insieme che ti piacerebbe raccontare?
Come si fa a riassumere in poche righe episodi, fatti, situazioni, che hanno riempito oltre 25 anni di vita? Negli articoli che scrivevo come fedele cronaca delle nostre partite ne ho raccontati tanti, ma scelgo ora di ricordare un episodio avvenuto fuori dal campo, cha ha protagonista Pasquale Del Gatto, un ragazzo con distrofia di Duchenne al quale mi legava un’amicizia fraterna… quando giocava lo chiamavano “la jena” per la sua grinta come difensore con lo stick, ma al di fuori era sempre pronto a darsi da fare per portare avanti le attività dell’associazione, in particolare i trasporti. E poi era dotato di un’ironia inimitabile. Un pomeriggio eravamo in Sede UILDM, dopo aver organizzato i giri per gli allenamenti: io ero in ansia, sapendo che stavano per essere diramate le convocazioni della neonata Nazionale. Pur essendo stato uno dei suoi promotori, come tutti i giocatori, speravo un giorno di potervi giocare… Ma Pasquale mi gelò, dIcendo: “Non capisco, ma la nazionale non riguarda quelli bravi? E allora tu di cosa ti preoccupi?”. Fare le cose necessarie insieme e in allegria. Questa era la nostra modalità operativa. Tutto il gruppo che faceva sport con la UILDM era così, allora.
Quando vai a parlare nelle scuole e a raccontare la tua esperienza qual è la cosa che colpisce di più i ragazzi?
Credo la capacità degli atleti che praticano il powerchair hockey di compiere movimenti insospettabili e azioni di gioco sorprendenti, per persone con disabilità motorie così severe.
Questo sport trasmette valori importanti ma purtroppo negli ultimi anni non sono stati più recepiti da tutti. Infatti di recente per questo motivo siete stati costretti a compiere la scelta dolorosa di sciogliere le due squadre milanesi. Come pensi si possano recuperare questi valori importanti?
È vero è stata una decisione dolorosa, ma vorrei precisare che la scelta non è stata quella di sciogliere le nostre due squadre, bensì di non iscriverle al prossimo Campionato. Questo perché i valori importanti di cui si diceva prima, avevano completamente ceduto il campo a quelli legati all’agonismo e all’impegno per conseguire le vittorie nelle competizioni alle quali si partecipava. In pratica, quello che doveva rappresentare un mezzo, la competizione agonistica, per raggiungere il fine del miglioramento umano e sociale, si era trasformato nel fine stesso. Per tornare agli antichi valori, l’unica ricetta sembra essere quella di ripartire da zero, riproponendo lo sport come momento sociale ed educativo che possa formare un autentico spirito di gruppo che abbia alla base amicizia e solidarietà.