Abbiamo già avuto modo altre volte di proporre ai nostri lettori le iniziative e le imprese di Matteo Briglia, amico della nostra Sezione UILDM. Personaggio poliedrico ed estroverso, Matteo, non vedente, è un vulcano sempre in attività. Nell’articolo che vi proponiamo di seguito, si descrive l’avventura negli Stati Uniti di Matteo e dell’amica Ada Nardin per far innamorare anche gli americani della versione italiana del baseball per ciechi. (R.R.)
La battaglia (vinta) di Ada e Matteo Il baseball per ciechi va alle Olimpiadi
Sono andati a fare gli ambasciatori in casa dei maestri, hanno spiegato, divulgato, dimostrato, chiesto adesioni e fatto proseliti. Matteo Briglia, milanese, blogger, giornalista esperto di sport americano, influencer, tastierista di blues rurale, impiegato in un’azienda informatica e Ada Nardin, veneziana e reatina di adozione, tra i mille impegni quotidiani un impiego nel Dipartimento delle Politiche sociali al Comune di Roma, una volta la settimana in viaggio per Milano dove fa la guida di «Dialogo nel buio» (il percorso che all’Istituto dei ciechi immerge i visitatori in una realtà multisensoriale), cooperante internazionale con alle spalle missioni in Congo, Mali e Tanzania dove è andata a formare gli insegnanti dei ciechi d’Africa. Insieme hanno unito il loro moto perpetuo e deciso di portare il baseball per i ciechi Oltre Oceano, là dove il gioco è nato quasi 2 secoli fa.
Sono partiti per New York per diffondere il verbo del gioco che all’inizio degli anni ‘90 Alfredo Meli, campione della Nazionale e della Fortitudo Montenegro, aveva deciso di codificare per chi è costretto a vivere con il buio come compagno di avventura. Bendava i suoi compagni di squadra, li schierava sul diamante e li faceva giocare senza riferimenti per trovare soluzioni. Un sonaglio incastrato nella palla, due «spalettatori» che con degli arnesi di legno emettono segnali sonori per indicare la posizione delle basi, la variante che vuole il battitore proporre il lancio per se stesso e il baseball per ciechi sbocciò come un fiore a primavera: primo incontro ufficiale nel 1994 a Casalecchio di Reno. Da allora il gioco ha fatto tanta strada: è nata l’Aibxc (Associazione Italiana Baseball per Ciechi), sono state fondate 9 squadre (2 a Milano, una a Roma, poi Bologna, Brescia, Firenze, Ravenna, Empoli, Cagliari), un campionato combattutissimo, una Coppa Italia e un torneo di fine stagione. Fino ad arrivare ai giorni nostri, ad Ada e Matteo che, da avversari, lei con gli All Blinds romani, lui con i Lampi milanesi, si incontrano su un campo da gioco e si innamorano, perché, come sottolinea sorridendo Matteo «un diamante è per sempre».
Insieme si sono messi in testa un’idea meravigliosa, portare il loro gioco alle Paralimpiadi di Tokyo e così sono andati in missione nella Grande Mela tra lo scetticismo dei maestri e là, con l’aiuto di Tom e Sandra Derosa, hanno fondato i Rockers, la prima squadra americana di baseball per ciechi. Negli Stati Uniti i ciechi praticano il «Beep ball» e gli americani difendono il loro gioco, troppo statico, troppo assistito, troppo poco agonisticamente stimolante per soddisfare le esigenze di chi crede nell’importanza dello sport come mezzo per migliorare le proprie condizioni di vita: «Il baseball così come lo giochiamo noi - racconta Ada - aiuta a seminare autonomia, a rimuovere lo stereotipo del cieco triste, sfigato. Il baseball ti costringe a fare più cose da solo e al servizio di una squadra. Migliori il tuo schema corporeo, la percezione consapevole dello spazio che occupi. Quanti ragazzi sono rifioriti anche umanamente su un diamante, migliorando la propria autostima». Il traino italiano ha fatto nascere squadre a Cuba, Panama, Francia e Germania, c’è un movimento in Pakistan sulla scia di quanto fatto in campo da Sarwar Ghulam, un pakistano con cittadinanza italiana che è diventato il fuoriclasse del campionato di casa nostra. Ada e Matteo dagli States sono tornati con cinque cerchi alla testa: «Ci vediamo a Tokyo».
(Fonte: Il Corriere della Sera – Art. di Valerio Vecchiarelli)