Moda e disabilità: il Progetto UILDM “Diritto all’eleganza” su Vanity Fair

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Vi proponiamo un ampio e documentato articolo apparso sulla qualificata rivista Vanity Fair in quanto, oltre a rappresentare una fotografia molto attendibile dello stato dell’arte sul tema della moda inclusiva per le persone con disabilità, fornisce anche riscontro sul contributo dato dalla nostra Associazione alla soluzione del problema, attraverso il Progetto “Diritto all’eleganza” coordinato dalla Vicepresidente Nazionale Stefania Pedroni. (R.R.)

Moda e disabilità: facciamo il punto

Si chiama «adaptive fashion», si rivolge ai diversamente abili e negli Stati Uniti e nel Regno Unito hanno capito che si tratta - anche - di un grosso business. E in Italia? Per il momento stiamo a guardare

Il fatto stesso di avere un nome ne garantisce, almeno a parole, la dignità. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna si sta facendo un gran parlare di adaptive fashion, la moda pensata per persone con disabilità. Si tratta di un fenomeno esploso di recente che ha acceso i riflettori sulle esigenze di chi si muove grazie a una sedia a rotelle o altri tipi di ausili, di chi ha protesi e di chi convive con malattie croniche ma che, non per questo, voglia rinunciare a sentirsi desiderabile e glamourous.

Piccoli passi che stanno rapidamente costruendo un tipo di rappresentazione del corpo inclusiva attraverso sfilate, riviste di moda, collezioni e campagne pubblicitarie. Se nel mondo anglosassone si vedono i primi risultati di queste rivoluzioni estetiche in cui franano lentamente alcuni canoni considerati non più così granitici, in Italia il dibattito sembra piuttosto fermo. Se infatti escludiamo il caso di Bebe Vio, presenza fissa agli eventi e ambasciatrice della Maison Dior, disegnata da Maria Grazia Chiuri, oppure quello della aspirante Miss Italia Chiara Bordi che si è candidata al titolo di reginetta di bellezzanonostante la gamba amputata, il vento del cambiamento sembra soffiare con meno intensità anche a giudicare l’impegno delle maggiori case di moda. Ma per valutare la situazione nel nostro paese, andiamo a vedere nel dettaglio cosa accade all’estero.

Il primo a raccogliere la sfida è stato Tommy Hilfiger che ha creato nel 2016una linea di abbigliamento per bambini con disabilità. L’iniziativa è stata il frutto della partnership con Runway of Dreams, l’organizzazione no profit fondata dalla stilista Mindy Scheier, madre a sua volta di un bambino con la distrofia muscolare, che si occupa di promuovere il concetto di adaptive design soprattutto sensibilizzando brand mainstream. Obiettivo centrato dal momento che lo scorso anno lo stilista americano ha lanciato Tommy Adaptive, una capsule collection disegnata appositamente per far fronte alle specifiche esigenze degli adulti con disabilità fisiche.

Dopo di lui sono stati diversi marchi che hanno seguito il suo esempio. All’inizio del 2018, la catena americana di negozi Target si è allineata con l’aggiunta della linea adaptive per un abbigliamento casual da tutti i giornimentre qualche giorno fa è stata svelata la linea di abbigliamento «easy dressing» rivolta ai più piccoli di Marks & Spencer. «Abbiamo ascoltato i suggerimenti dei genitori», ha sottolineato la designer della multinazionale britannica Rebecca Garner, «ci hanno detto con trasporto che come la disabilità non definisce i loro figli, così gli adattamenti non dovrebbero definire i vestiti: per questo la linea è disegnata con un’idea inclusiva in tutto simile alla collezione principale».

Un caso che ha fatto molto parlare di sé è stato quello di Asos. L’estate scorsa il portale di e-commerce ha diffuso le immagini di una tuta sgargiante, una sorta di divisa per la stagione dei festival, disegnata in collaborazione con l’atleta paralimpica Chloe Ball-Hopkins. Tutto è nato dal sogno della ventunenne inglese affetta da distrofia muscolare diventato realtà grazie a una mail inviata al colosso dello shopping online: come tutte le ragazze della sua età, Chloe rivendicava il diritto di andare ai concerti senza bagnarsi e prendere freddo. E essere cool, ovviamente. «Questa tuta waterproof non è solo per le persone in sedia a rotelle come me ma per tutti», specifica Ball-Hopkins, «non vogliamo solo la comodità ma anche la possibilità di essere alla moda». Chloe è diventata modella e modello al tempo stesso sapendo quanto sia importante potersi vedere rappresentata.

Stesso periodo e stesso effetto dirompente per la campagna di Aerie, dal 2014 promotore di un’idea di «body positivity» che mostra le ragazze per quel che sono, senza ritocco. Ecco quindi apparire sui social del brand di lingerie della galassia American Eagle giovani donne con la vitiligine, in carrozzina, con le stampelle, con il sacchetto della colostomia e il dispositivo per l’insulina. Tutte sorridenti e senza pudori, un faro per le donne più o meno giovani che si sono riviste in queste modelle noncuranti delle loro fragilità.

Tuttavia più che un risveglio delle coscienze si è trattato della scoperta di un mercato tutt’altro che di nicchia, pronto a spendere pur di poter indossare abiti «normali», non solo comodi ma anche al passo con le tendenze del momento. Stando ai dati diffusi dall’U.S. Censis Bureau, infatti, negli Stati Uniti sono oltre 40 milioni le persone che convivono con una disabilitàmentre in Gran Bretagna sono quasi 12 milioni: montagne di dollari e sterline di cui i brand si stanno accorgendo solo ora. Come giustamente ha fatto notare nel suo discorso al TED Talk di un paio di anni fa la «disability fashion styling expert» Stephanie Thomas chiamata a parlare sul tema: «Nei negozi abbiamo più vestiti per cani che per persone con disabilità». Negozi tra l’altro che rendono impossibile lo shopping, per esempio, a chi è in sedia a rotelle. Un problema che accomuna, almeno in questo caso, l’Italia con il resto del mondo.
Nel 2017 in UK è nato il movimento Help Me Spend My Money per denunciare gli ostacoli a cui vanno incontro le persone con disabilità, tra scalini, mensole troppo alte e camerini inaccessibili. I promotori della campagna lamentano che nessuno vuole i soldi dei disabili: questo ogni settimana comporterebbe una perdita di 420 milioni di sterline per mancate vendite, molte delle quali nel settore dell’abbigliamento. Le persone con disabilità si possono vedere come consumatori, non si offendono di certo. «Ognuno vuole indossare il proprio brand preferito», sostiene Thomas, «ma quel marchio non deve evidenziare che si è differenti in un’accezione negativa». Inclusione, non esclusione.

Vedersi rappresentate sulla copertina di un magazine di moda può servire a dare un’iniezione di fiducia vitale, specialmente quando si è nel pieno dell’adolescenza. Per questo motivo per il suo september issue Teen Vogue ha arruolato tre modelle molto particolari raccontate nel lungo servizio scritto da una giornalista affetta da paralisi cerebrale, Keah Brown, che con l’hashtag #DisabledAndCute mira a cambiare la narrazione attorno alla disabilità.

Chelsea Werner è una modella e ginnasta con sindrome di Down, comparsa anche nella campagna di Aerie; Jillian Mercado è praticamente una rockstar su Instagram, «wheelchair user» a causa della distrofia muscolare, portata alla ribalta nientemeno che da Beyoncé; Mama Cax è una modella e blogger amputata, sopravvissuta a un tumore che le ha portato via una gamba ma non la vita quando aveva solo 14 anni.
«Essere magre, fisicate, bianche e alte: sono stati questi i rigidi canoni di bellezza a cui storicamente hanno risposto le modelle. Mentre guardiamo quel mondo spostarsi lentamente verso ideali più inclusivi riguardanti l’etnia, la taglia, il genere e l’orientamento sessuale, allo stesso modo questo slittamento dovrebbe includere anche i corpi disabili», auspica la giornalista, «come tutti i tipi di rappresentazione, vedere modelle disabili, non solo nelle riviste, può cambiare la vita delle persone».

Per lanciare dei messaggi, tuttavia le passerelle sono sempre state una cassa di risonanza importante. La stessa Mama Cax ha debuttato durante l’ultima New York Fashion Week per Chromat, brand newyorkese di costumi da bagno che da sempre si fa portavoce di una moda inclusiva. «Dopo l’amputazione ho aspettato tre anni buoni prima di andare in piscina o in spiaggia», ha confessato la modella e attivista, «questo accadeva perché non mi sentivo a mio agio nel mio corpo».
Vent’anni fa Alexander McQueen fece sfilare l’atleta paralimpica Aimée Mullins: lo stilista britannico realizzò per l’allora ventitreenne, senza entrambe le gambe per via di una doppia amputazione, un paio di protesi di legno intagliate da lui stesso.

Nel 2014 Danielle Sheypuk, invece, fu la prima modella a sfilare in carrozzinadurante una fashion week newyorkese per la collezione della designer Carrie Hammer che coniò lo slogan «Role models, not runway models». Per la sua collezione Autunno-inverno 2018/19 lo statunitense Willy Chavarria volle portare in passerella alla New York Fashion Week tutte le sfumature dell’umanità, invi compreso un modello mutilato di un braccio. Modelle in sedia a rotelle si sono viste anche nelle settimane della moda di Tokyo nel 2015e a Mosca nel 2017 ma, almeno da questo punto vista, l’Italia è non ha nulla da invidiare alla scena internazionale.

Grazie all’agenzia di modelle con disabilità Iulia Barton e alla Fondazione Vertical, il made in Italy è diventato inclusivo con l’obiettivo di raccogliere fondi per la ricerca sulle lesioni midollari. Negli ultimi anni Milano e Roma hanno ospitato diversi appuntamenti nel calendario della fashion week meneghina e di AltaRoma in cui indossatrici con protesi o su carrozzinahanno indossato abiti sartoriali disegnati da stilisti come Antonio UrziAngelo Cruciani e Renato Balestra. Allo show dello scorso febbraio a Milano, patrocinato dalla Camera Nazionale della Moda, la Iulia Barton ha portato in pedana la modella e attrice Tiphany Adams, paraplegica a causa di un incidente automobilistico, e Shaholly Ayers, nata senza il braccio destro da gomito in giù. La loro missione è quella di usare la popolarità per cambiare la percezione della disabilità.

Al netto di qualche sfilata e di qualche testimonial di peso, se il termine di paragone è ciò che accade all’estero, la sensazione è che la strada sia ancora piuttosto in salita. «Da noi si fa ancora fatica a vedere le persone con disabilità, specialmente quando si parla di moda, come potenziali clienti», ritiene Stefania Pedroni, responsabile del progetto Diritto all’eleganza di UILDMUnione italiana lotta alla distrofia muscolare , che aggiunge: «è ancora ben radicato nel nostro paese lo stereotipo del “poverino”: per questo  alle persone con disabilità si abbina sempre l’immagine di un capo pratico come una tuta». Il progetto Diritto all’eleganza nasce nel 2017 proprio per questo, per trovare un trait d’union tra stile e comfort. Per farlo UILDM ha deciso di coinvolgere i ragazzi delle scuole di secondo grado che si occupano di moda (la prima edizione ha visto il coinvolgimento di due istituti, uno di Firenze e uno di Ottaviano, che hanno lavorato a stretto contatto con le sezioni locali dell’associazione) con l’idea di formare da subito i talenti futuri verso un’idea di abito che, pur tenendo conto della vestibilità, sia anche un mezzo, per le donne ma anche degli uomini, per aumentare la propria autostima.

Non tutte le disabilità sono uguali e pertanto richiedono una vestibilità che cambia di caso in caso. «A scuola insegneremo che pur avendo una patologia che può sembrare simile a quella di un’altra persona, ognuno resta individuo singolo e, per questo, ognuno troverà diversi ostacoli nell’indossare abiti cosiddetti comuni», spiega Pedroni, «il tessuto è importantissimo, non deve essere eccessivamente rigido e non eccessivamente pesante dal punto di vista di grammatura. Un capo deve essere semplice da indossare e deve essere in armonia con tutti gli ausili e i supporti posturali che sono necessari, per esempio, a una persona che può stare 12/16 ore in carrozzina».

Guardando i dettagli delle linee proposte da Tommy Adaptive, Target e Marks & Spencer, per esempio, notiamo che le etichette sono stampate a caldo per non irritare la pelle, le cuciture sono piatte e le aperture delle gambe sono più ampie e regolabili. I bottoni sono banditi a favore di velcro, zip e magneti e bisogna considerare lo spazio per i bendaggi e tasche che nascondono i tubi per l’alimentazione. «Basti pensare a chi può avere difficoltà semplicemente ad abbottonare una camicia o a fare il nodo ai lacci di una scarpa: tutto ciò può comportare una rinuncia a indossare un determinato capo che però magari realizzerebbe appieno la sua personalità», sottolinea la rappresentante di UILDM, «il progetto nasce proprio per far sì che questo non accada, lavorando sulle necessità e accorgimenti diversi».

«Abbiamo deciso di dialogare con il mondo della scuola perché pensiamo che i giovani poi porteranno questo messaggio di inclusività alle loro famiglie e quindi nella società», continua Pedroni, «per noi la moda è uno strumento da utilizzare come incipit di conoscenza e, come tale, lo riteniamo in grado di abbattere le barriere culturali».

 (Fonte: Vanity Fair 03/10/2018 – Art. di Giorgia Olivieri )

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